Parola a Frantz Jean, preparatore canadese di portieri

Professione preparatore di portieri: le tre "p" caratterizzano l’attività di Frantz Jean, al suo secondo periodo di stage a Torre Pellice, dove vi era già stato nello scorso mese di in ottobre.
Un passato di portiere in quel di Montréal …. "fino ai 20 anni ero bravo, con buon fisico e una buona applicazione – dice di sé  Frantz Jean -, poi il mio talento è risultato non sufficiente a emergere; ho giocato fino ai 26 e ora, a 38 anni, sono qui a preparare portieri in due vesti: come allenatore della squadra giovanile dei Wildcats de Moncton (www.moncton-wildcats.come nell’ambito della mia scuola, la ProTekGoaltending (www.protekhockey.com)".

Della sua professione abbiamo avuto un breve saggio in una seduta allo stadio di Torre Pellice, con i portieri delle varie categorie; e, a parlarne di persona, viene fuori tutta un scienza e una sapienza che svaria dalla tecnologia alla psicologia alla filosofia del vivere sportivo.

Innanzitutto, che lavoro fa un preparatore di portieri con i più giovani?
"Intanto ci vuole una personalità tutta particolare per aspirare al ruolo di portiere: prima si devono vedere le attitudini del ragazzo, poi cercare di sviluppare in lui le capacità di base. L’hockey di oggi è tutto basato sulla velocità, e per il portiere questo si traduce nella necessità di sapere ben posizionarsi. Dunque ciò che conta nei più piccoli è imparare a muoversi bene sui piedi per trovare la giusta posizione. Solo dopo si comincia a lavorare all’affinamento dei gesti tecnici.
Ai 13-14 anni di età si lavora sull’aspetto mentale e della concentrazione: prima i ragazzi devono essenzialmente provare divertimento in questo sport. Ai 14-15 anni quelli con più talento emergono, e allora si dovrà lavorare anche sulla capacità di gestire la partita".

C’è un’evoluzione che rende il ruolo del goalie un po’ meno spettacolare di un tempo?
"Diciamo che di fatto si punta essenzialmente sull’efficacia e sulla costanza del rendimento, piuttosto che su un certo numero di interventi belli, fra i quali però ci si lascia scappare il tiro vincente: quando ho visto Kowalski a Bolzano (il 17 ottobre 2009, 4-2 per la Valpe, ndr), che ha subito due reti su 36 tiri, ecco, questo è un bel rendimento. E, a proposito dei portieri di questa squadra, ho visto un bel miglioramento da ottobre a questa parte, anche nelle categorie dei più grandi (under 15 ed under 17): si vede che sono appassionati, le loro capacità di partenza non sono poi così diverse da quelle dei coetanei in Canada, la differenza è portata dalla concorrenza che hanno i giocatori in un paese in cui l’hockey è sport nazionale, e dal fatto che un portiere si deve confrontare con attaccanti avversari tutti di un livello elevato, cosa che non può ancora capitare in Italia.
Per un ragazzo che fa il portiere da voi ci saranno partite difficili e altre in cui può stare relativamente tranquillo, e ciò non aiuta a sviluppare la costanza del rendimento; ciò vale anche in allenamento: servirebbero sempre dei compagni di squadra, tutti, di un certo livello per rendere impegnativi i loro tiri e addestrare il portiere a neutralizzarli".

Poi per far crescere un giovane portiere bisognerà fare lavori personalizzati…
"Naturalmente, si tratta di abituare il ragazzo a mantenere i propri punti di forza e lavorare a migliorare quelli che sono i suoi punti deboli: ci sono dei buoni esercizi da fare, in teoria, ma poi devono essere rapportati alle qualità del singolo atleta. Una bella fetta del mio mestiere quindi consiste nel fare una specie di check-up sulle debolezze di ognuno per correggerle.
Esiste certamente un lavoro di tipo standard, da fare un po’ con tutti, ma questo sarà redditizio solo all’inizio del percorso; poi bisogna conoscere il singolo individuo e la sua personalità, avere un approccio diverso con ognuno, parlare molto e sviluppare con lui molta comunicazione anche fuori dal ghiaccio, perché ci sia fiducia reciproca: diversamente il giovane ascolterà, sì, ma senza interiorizzare. Invece bisogna fargli capire che tutto ciò che gli si fa fare ha un senso, una ragion d’essere. E questo vale naturalmente anche nel caso dei senior: non faccio con un portiere di 30 anni, con ampia esperienza, lo stesso lavoro che faccio con un portiere che da poco si è affacciato alla massima categoria".

Ma questo sembra essere un discorso che vale anche al di fuori dell’ambiente sportivo…, per esempio a scuola.
"Esattamente: in questi ultimi 10-15 anni è cambiato moltissimo: i ragazzi che si avvicinano all’hockey hanno a disposizione una quantità d’informazioni non paragonabile a quella di un tempo, a causa dei molti cambiamenti sociali e di un mezzo come internet; non si accontentano di fare quello che insegni loro, ti chiedono: ma perché?
Ai miei tempi si eseguiva e basta, ora un tecnico di giovanili deve saper insegnare e giustificare ogni richiesta che fa al ragazzo, deve dare un senso alle cose e farlo capire all’atleta. In questo momento il Paese in cui si lavora più organicamente in questa direzione è la Finlandia, dove c’è anche una uniformità nelle modalità di preparazione dei giovani atleti. I formatori seguono determinati schemi, e chi “forma i formatori” segue le stesse linee-guida: se un ragazzo cambia città non si troverà di fronte a una diversa metodologia di insegnamento tecnico, ma ritroverà la stessa filosofia, e i risultati si vedono. In misura diversa si accodano a questa impostazione anche Svezia e Svizzera, mentre i Paesi dell’Est non hanno ancora fatto questa svolta".

Sta cambiando qualcosa anche dal punto di vista fisico per i portieri di oggi e… di domani?
"Sì, molto: in un hockey tutto velocità conta sempre di più la struttura fisica del portiere, per fare un esempio conosciuto in Italia diciamo che servono gli atleti come François Gravel, più alti di un tempo, che possono coprire e togliere luce alla loro gabbia. Gli attaccanti sono sempre più veloci, e per due motivi: uno di preparazione fisica (sono meno “immensi” di un tempo, lavorano meno su quanti kg sollevare, e molto sulla capacità di sollevarli con strappi in rapida successione, in una parola conta l’esplosività dei muscoli più che la loro potenza assoluta) e l’altro relativo ai materiali (stecche più flessibili, pattini sempre più perfezionati, perfino i guanti sono più leggeri e danno maggior sensibilità alle mani); così i buoni riflessi o le pinzate spettacolari non bastano più a fronteggiare tiri improvvisi e fortissimi: bisogna bloccarli sul petto o sulle spalle: un tempo ci si faceva male, adesso i materiali impiegati proteggono maggiormente il portiere; inoltre il peso delle protezioni si è ridotto ben più del 50% negli ultimi 20 anni, e l’equipaggiamento è diventato più largo, e questo mette in difficoltà gli attaccanti avversari".

Piccola morale provvisoria di chi scrive: si continuerebbe a parlare per ore con questo scienziato dell’hockey, ma la sua full immersion in Val Pellice impone orari congestionati. I frutti si sono visti e si vedranno ancora. Il pubblico Valpe si aspetta il terzo stage, il giornalista anche: magari l’anno prossimo, chissà.

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